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Un pomeriggio come tanti da Camilla

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Un pomeriggio come tanti  

 

Ecco che uno dei tanti pomeriggi simili,  mi venne fatto di pensare che, forse dal momento del suo insediamento nella casa, non avevo neppure dato un’occhiata alla camera occupata da lei, neanche per curiosare su come l’aveva sistemata; né lei mi aveva invitato a farlo..  E allora, quasi senza accorgermi, ecco che mi appresso all’uscio. vi appoggio l’orecchio articolando <Camilla?> e rinforzando il sussurro con un tocco del dito medio. No, nessuno. E sul gesto della mano alzata sulla maniglia mi prende un sussulto, come di vergogna. Me ne torno quatto quatto al divano per consumarvi il tempo dell’attesa.

E intanto che aspetto, mi è passata del tutto la voglia di buttare l’occhio dentro il  giornale, di sfogliare il libro che custodisce la matita, di rallegrarmi per la turgida bellezza d’una dalia amaranto che spicca, in giardino, sul fogliame bruno della pianta. E mi sento prendere da un’inquietudine che mette corna e denti e vuol sapere perché Camilla ci mette tanto a ricomparire, una volta fra cento che riesco a mollare il lavoro prima del solito, spinto da una specie di urgenza di  percepire la sua presenza nella casa, il suo inciampare dentro le pantofole sul marmo lucido del pavimento, il respiro accelerato dietro quel suo andare e quieto tramenare in cucina o, chi sa, nello stanzino delle scope … E intanto che me la figuro - parendomi di cogliere dentro la sua smaccata assenza uno sgarbo fatto a posta contro quell’urgenza mia di lei, che mi cresce dentro come un’onda – avverto la sua sagoma sul vialetto, la quale seminascosta dalla siepe si blocca per qualche secondo, come per un intoppo … Eccitato dalla curiosità, sbircio meglio. E’ come se lei, intuita la mia presenza in casa, voglia guadagnare un tempo - che so?- per ricomporsi dopo uno spavento o un insulto, e parere la Camilla solita e normale. Ma lo scontento  e il profilo di  una smorfia inusuale, che le aleggia sulla bocca, sono più di una sirena  e il mio quesito esige una risposta. Lei si butta sul divano e protesta una stanchezza da pullman tardivo e pieno di viaggianti, e lei non è altro che un’anatra zoppa. Lei non richiama intorno a sé il senso dell’umana gentilezza … E nel suo dire afflitto, la testa, quasi di bambina sull’esile collo, è abbandonata sullo schienale dove i capelli si spargono in cascata e chiamano a una fuggevole carezza. Sedendo accanto a lei, la mano a mezz’aria per un impulso indecifrabile e irresoluto, cerco uno sguardo che un po’ si nega e scioglie due lacrime dense in un silenzio che raccoglie ai bordi del suo foro le domande più banali.  

<Ma no, no … Che è stato? No, no, non piangere … > E già non si capisce più di chi siano le lacrime, né più si sa chi sia l’afflitto e chi il gaio, per che cosa e chi si stia smarrendo, e chi e perché vada a incontrarsi col più autentico sé.

Iniziò così la spartizione fisica degli affetti, sulla cresta della sua ricorrente afflizione di essere come era, senza potersi figurare un rimedio; ma solo il sottile viraggio della casualità. Ah, poter accettare da me alcunché di tenero potesse giungerle, almeno come una parziale compensazione al suo precario senso di sé. Io non me ne adombravo, né mi sarei risentito se anche fossi stato vissuto come suo strumento di consolazione. Anzi.  Perché per me quanto ci accadeva aveva un sapore assolutamente gratuito e regale: sapevo di amarla. Lei taceva e sgranava quei suoi occhi all’indirizzo di un punto lontano e indefinito.

Da principio temetti il suo disgusto, che poi non si palesò. Continuai a temere gli effetti di un  suo turbamento tardivo, che non si manifestò. Poi  mi preoccupai anche che l’assenso fosse apparente e silenzioso, che nascondesse una sua disperata acquiescenza, la quale mi configurava violento e rapace. Ma. lei non mi restituiva quell’immagine. Continuai a preoccuparmi. Temevo il momento della sua noia, temevo che lei desiderasse ciò che io non sapevo offrire, temevo che lei manifestasse il desiderio di tornare nei suoi luoghi, malgrado la recente sua decisione di chiudere quella pagina, temevo la ricorrenza insormontabile della sua malinconia e la mia fondamentale e maschile estraneità … Mi preoccupavo e tacevo anche io. Temevo e non pensavo che a me. E fu allora che riproposi viaggi e vacanze.

Così partimmo. E fu come se si sciogliessero i ceppi. Come se mai ci fossimo incontrati come consanguinei. E fummo pazzamente folli d’amore e non ci furono segreti dell’uno per l’altra, tali che fummo capaci di  sottoscrivere senza falso pudore il nostro stato. Trovammo parole: poche e pacate. E se il non ancora detto rimase impigliato nel cono d’ombra retrostante a un abbagliante irruzione di sole, nessuno se ne dolse. E se talvolta ciascuno di noi - lei un po’ di più - si abbandonò in qualche momento alla malinconia d’una carenza, fu per dirne la distanza, fu per opporre alla faccia avara della vita un nuovo scongiuro. 

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